Ius divinum: inadeguatezza di una formula testuale


comunicazione letta in 'Gruppo di lavoro' all'interno del XIII Convegno internazionale della "Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo" (Venezia 17-21 settembre 2008)

L’uso di termini/concetti quali “Diritto” e “divino” (“naturale”), genera oggi reazioni di diffidenza e contrarietà; si tratta di formule inadeguate ed infruibili per tutelare ciò che è necessario evocare e tutelare attraverso il loro uso.

1 Diritto divino nel secondo millennio cristiano Ancor oggi la maggioranza dei giuristi segue Grozio con la sua distinzione –fuori dal Diritto meramente umano– tra ‘Diritto naturale’ e ‘Diritto divino’, individuati in base alla necessità o meno dell’intervento di Dio; ‘Diritto naturale’ è quello che varrebbe etsi Deus non daretur, Diritto divino è quello rivelato nella S. Scrittura. Tale impostazione presuppone ed induce una strutturale contrapposizione tra ‘Diritto naturale’ e ‘Diritto divino’: un’opposizione che finisce per negare ogni contiguità tra le due categorie, separandone anche fondamenti e metodo e finendo per negarle entrambe nel Positivismo ottocentesco.

Di fatto Grozio ha rinnegato la posizione giunta fino a lui e che F. Suárez  aveva fissato nella distinzione tra ‘Diritto divino naturale’ e ‘Diritto divino rivelato/positivo’. In tale prospettiva ciò che guidava l’agire umano poteva essere ricondotto a due grandi categorie: lo Ius humanum e lo Ius divinum in piena sinergia e coerenza con la cultura medioevale cattolicamente ispirata.

Fu grazie all’apporto di S. Tommaso che s’iniziò a meglio distinguere tra Diritto divino e Diritto naturale sulla base di principi e considerazioni tutt’altro che giuridiche.

Graziano nulla aveva detto dello Ius divinum, riferendosi invece spesso allo Ius naturale ricondotto direttamente –e ripetutamente– alle S. Scritture, secondo la tradizione giunta sino a lui. In Graziano “divino” e “naturale” sembrano corrispondersi reciprocamente tendendo ad identificarsi. L’esame delle ricorrenze testuali della formula esplicita “Ius divinum” nel Decretum Gratiani mostra solo sette ricorrenze tutte in materia patrimoniale, secondo l’indicazione ‘originaria’ di S. Agostino.

2 Diritto divino nel primo millennio cristiano «Divinum Ius in Sacris Scripturis habemus», aveva letto Graziano in S. Agostino; peccato che tale affermazione non fosse ‘sua’ ma dei suoi oppositori: gli eretici donatisti che pretendevano possedere beni patrimoniali contro le vigenti Leggi romane. La posizione de Iure divino è contrastata da S. Agostino che rivendica solo alla ‘vera’ Chiesa la piena proprietà immobiliare in base al Diritto umano e contro la presunta portata di quello divino sostenuto dagli eretici. Tutt’al più alla S. Scrittura –e non al Diritto divino– si può chiedere quale sia la vera Chiesa: quella cattolica!

Ancora verso le origini del Cristianesimo, s’incontra la coscienza del Giudaismo intertestamentario circa la non-piena riconducibilità a Dio stesso della Legge mosaica. Si passa infatti dalla concezione della Legge scritta dal dito di Dio (Es 31, 18) a quella in cui degli ‘angeli’ l’avrebbero consegnata a Mosè (At 7, 38. 53). La diffusione e solidità di questa posizione giudaica è confermata da S. Paolo nella Lettera ai Galati (Gal 3, 6) e l’autore della Lettera agli Ebrei (Eb 2, 2); cui si aggiungono –fuori dall’ambito cristiano– G. Flavio ed il “Libro dei Giubilei” (II sec. a. C.).

3 Diritto divino prima/fuori del Cristianesimo Dire “Ius divinum” nell’antichità romana sarebbe stato un non sens, poiché già “Ius” era espressione di azione divina. Il termine “Ius” rimandava ad un intervento divino che stabilisse il Diritto pronunciandolo (Ius dicere); si trattava di un’ordalia: un iu-dicium (non un pro-cessum), una sentenza divina che attribuisse ad uno dei contendenti la definitiva posizione di favore. Lo Ius attinto dai sacerdoti non era la regola nascosta che regge l’universo, ma la dichiarazione del concreto e puntuale successo di un contendente sull’altro: un vero ‘arbitrato’ divino per via divinatoria.

Anche nell’Ebraismo veterotestamentario si attribuiva al ministero sacerdotale il ‘dichiarare’ la sententia Dei attraverso il ricorso alle ‘sorti’, utilizzando strumenti di divinazione quali ’urìm e tummìm: il gioco delle sorti.

La modalità divinatoria dello Ius dicere è rimasta ampiamente diffusa tra i popoli barbarici europei fino al Medioevo, tanto come ordalia che come combattimento giudiziario, da cui derivò poi il ‘duello’… sempre come ‘giudizio di Dio’.

In tutti questi contesti Ius è la pura ‘solutio causæ’ e non può che essere divinum!

4 Criticità complementari Nell’Antigone le “Leggi degli dei” si oppongono radicalmente a quelle degli uomini, costringendoli a superiorem recognoscere. Diritto divino ed umano non si collocano sullo stesso piano: riguardano l’unico agire delle stesse persone ma in prospettive radicalmente diverse; etico-fondativa la prima, meramente funzionale la seconda.

Secondo gli antichi Romani il Diritto naturale (quello non posto dagli uomini) riguardava anche gli animali: «il Diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali» (Ulpiano, Digesta Iustiniani, 1.1.1.3).

Gaio identifica Ius naturale e Ius gentium, quanto al contenuto, poiché entrambi derivano da una stessa naturalis ratio; Giustiniano indicherà lo Ius naturale come “divina quadam providentia constitutum”.

5 Conclusione A conclusione del percorso critico sin qui proposto in chiave semantica e concettuale appare senza dubbio chiaro che oggi non esistono più né i presupposti né le condizioni per l’utilizzo della formula testuale “Diritto divino” e le sue deboli e cangianti concettualizzazioni, connesse di volta in volta dalle differenti circostanze culturali. Esistono, invece, e continuano ad esistere ed a rafforzarsi le motivazioni per urgere il contenuto reale di questa istanza di ‘resistenza’ ontologica ed etica allo strapotere del desiderio umano di manipolare ogni minuscolo elemento della realtà a lui soggetta –o affidata–, anche dal punto di vista teologico, come avviene nel Diritto canonico.

Coi teologi del secolo scorso siamo d’accordo nel limitare –e cessare– l’uso di una categoria così inefficace, mentre col canonista T. Jiménez Urresti riteniamo che sia molto più efficace parlare di “imperativo teologico”, la cui chiarezza concettuale non dovrebbe permettere troppo facili trasformismi semantici e concettuali.

prof. Paolo Gherri